Il peer to peer ha molte facce. Nato come sistema alla base del software per lo scambio di file, spesso in violazione dei diritti d'autore detenuti da case discografiche, è poi stato apprezzato da grandi e note aziende. IBM, Intel e Sun Microsystems, tra gli altri, si sono convertiti al peer to peer. Hanno scoperto che per lo scambio di file tra il personale, utenti della rete aziendale, i sistemi peer to peer sono più convenienti di quelli tradizionali. Non dover passare dal server centrale permette di risparmiare risorse, come confermano anche gli analisti di Gartner Group. Ne deriva un taglio delle spese relative alle comunicazioni tra dipendenti.
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La stessa caratteristica delle reti peer to peer, la decentralizzazione, è anche nel mirino della RIIA e di tutti coloro che detengono diritti sul copyright, minacciati dal file sharing. L'assenza di un server centrale rende più difficile un controllo esterno dei contenuti veicolati nelle reti peer to peer.
IBM e RIIA sono d'accordo su un punto, a fronte di interessi diversi nei confronti del peer to peer: queste piattaforme sono efficienti.
Troppo efficienti: pericolose, aggiungerebbero i discografici. Una visione di fondo condivisa da diverse parti, che del peer to peer riconoscono la forza, in bene o in male. Fanno eccezione gli analisti dell'Università Chicago, secondo cui la decentralizzazione delle risorse è dannosa, perché irrazionale; rende più difficile la raccolta di informazioni.
Ma il peer to peer non è solo una piattaforma alternativa di connessione, con vantaggi (o svantaggi) meramente pratici. È anche una filosofia. Filosofia di chi crede in una rete decentralizzata, senza padroni, costruita dal basso. Connessioni senza server centrale equivalgono, con una metafora offline, ad assemblee non autorizzate, discussioni della massa non mediate e organizzate dall'alto, dal potere. Tutta una filosofia, che rischia però di essere degradata a puro mezzo di scambio.
La colpa è anche della massa degli utenti che hanno visto nel peer to peer prima di tutto uno strumento per lo scambio di musica e film. La libertà potenziale è diventata occasione di furto. E si è permesso ai detrattori del peer to peer, degli hacker e di tutte le forme di libertà associate alla rete, di ribadire il teorema che ha segnato i governi di tutti i secoli: rivoluzionario=ladro, Hacker=pirata, Peer to peer=strumento di furto.
È sotteso il corollario: coloro che inneggiano alla libertà vogliono soltanto creare disordine e approfittarne per derubare i ricchi. Si toglie così dignità di alternativa al mondo nuovo che i libertari auspicano. Mondo alternativo, appunto. Senza padroni, non dove i libertari hanno licenza di furto ai danni dei padroni. O almeno un mondo dove le informazioni non sono filtrate dall'alto, ma corrono di bocca in bocca. E se capita che i contenuti si deformino nel passaggio è perché acquistano il colore delle emozioni dei narranti, non perché cedono alle regole del polically correct.
Le istituzioni propongono una divisione netta. Da una parte, il peer to peer cattivo, strumento incontrollato e sregolato in mano agli utenti, che non possono che utilizzarlo per male azioni... Dall'altra, il peer to peer buono, integrato nelle aziende (e nella società), finalmente utile a qualcosa che la macchina economica è in grado di riconoscere e apprezzare: il profitto. Così la pensano le aziende d'avanguardia, "illuminate", pronte a ingoiare e metabolizzare quello che nasce dal basso e che può essere riconvertito.
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Alla base di tutto c'è una visione riduttiva del fenomeno peer to peer. La stessa superficialità che porta qualcuno a conclusioni affrettate sull'Open Source. E a dire che si sceglie Linux per non regalare soldi a Microsoft.
Il problema è antico: chi teme la libertà non riesce a metterne a nudo il cuore e la potenza. A riconoscere la forza di un ideale extraeconomico. Un principio che vive nel mercato, nella realtà quotidiana, ma che va oltre. Supera la gabbia del dare e avere, del calcolo economico e si apre alla bellezza del dono. Il concetto che Derrida si affannava di spiegare in opere come Donare il tempo.
Chi condanna senza appello il peer to peer, denunciando il male di fondo che si cela nel concetto base del sistema, si atteggia invece a polo conservatore. Sostiene il principio secondo cui la libertà è disordine, le transazioni fatte dal basso sono irrazionali e non possono essere integrate in un sistema regolato e profittevole.
È impossibile stabilire se gli analisti di Chicago siano associabili a questa categoria. Se lo spirito delle loro ricerche sia animato da intenzioni conservatrici o segua solo le fila di un ragionamento tecnico. Consapevoli o no, quegli analisti hanno però assunto una posizione che potrà essere accolta dai gruppi più reazionari, sia in politica sia in economia. Da coloro che non vedono nulla di buono nella decentralizzazione, che osteggiano i sistemi orizzontali di gestione del personale e delle informazioni. E che ora possono accusare il peer to peer di essere o dannoso o inutile, non integrabile in contesti "onesti" e quindi da attaccare senza pietà.
Questi detrattori mancano però il bersaglio, possono convincere solo quelli che già erano d'accordo con loro. "Il peer to peer potrà pure essere inefficiente, non è quello che volevamo da lui. Volevamo maggiore libertà", potranno rispondere i promotori di una rete libera. E se il peer to peer sarà giudicato inadeguato agli standard industriali, tanto meglio. Non subirà il degrado di essere considerato un mero strumento di risparmio economico. Se saranno bloccati tutti i sistemi di scambio illegale di musica, ancora non sarà finita per il peer to peer. Non subirà più la volgarizzazione di essere usato come strumento di rapina.
da http://punto-informatico.it/
Scritto Da - thedarkenemy il 15 Novembre 2002alle ore 13:37:50